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Cerveteri, una storia che rende la “Cuppoletta” ancora più cara

di Angelo Alfani

Da alcuni giorni ,a causa di imbecillità diffusa, l’edicola, conosciuta dai cervetrani come Cuppoletta di Sant’Antonio, è assurta alle cronache locali.

Un misto di rabbia ed indignazione per la volgarità elargita a piene mani.

Ho ritenuto utile aggiungere alla breve descrizione del posto un racconto che pochi conoscono e che mi auguro possa aumentare l’attenzione ed il rispetto per un luogo icona per la Comunità.

I cervetrani la conoscono bene.

I forestieri che hanno avuto l’opportunità di vederla ne sono rimasti affascinati.

La Cuppoletta e’ uno sperone di tufo che racchiude una nicchia resa agibile dal lavoro umano, che interrompe la lunga faglia rossastra (le greppe di Sant’Antonio) che delimita a sud-est il pianoro su cui sorgeva la mitica Agylla.

Ci si arriva lasciando il quartiere della Casaccia sorto negli anni cinquanta ,allungando il passo lungo uno stradello polveroso delimitato da insediamenti di rovi, edera ,lecci e muraglioni di quadroni di tufo etruschi, riutilizzati, come confine, dai proprietari terrieri di secoli scorsi.

E’ una stradina che scende lentamente fino ad una curva a gomito, dando la sensazione al viandante di inoltrarsi in un mondo lontano, che incute timore e rispetto.

Cerveteri, una storia che rende la "Cuppoletta" ancora più cara
Cerveteri, una storia che rende la “Cuppoletta” ancora più cara

Nel curvone ,stretto tra due dirupi tufacei scoscesi ,sulla sinistra, proprio a ridosso di un canale di scolo primigenio, ci si arrampica, grazie a impervi gradini, sullo sperone della Cuppoletta spaziando su tutta la vallata del Vaccina, fino al mare.Finalmente la luce dopo le tenebre.

Una sorta di capo Sunion degli agyllesi: una posizione così suggestiva da stringere i polmoni.

Come a capo Sunion furono edificati due templi, uno dedicato a Poseidon l’altro ad Atena ,così nel  pianoro di proprietà della storica famiglia Calabresi, nei tanti e diversi scavi sono stati rinvenuti resti di templi etruschi ed una clava in bronzo :quella del forzuto Ercole.

Pezzi di tegole dipinte, frammenti di antefisse che, come si dice a Cerveteri, scappeno fori dal terreno e dalle antiche discariche che ne hanno riempito i lati, sono ulteriore testimonianza della fondamentale funzione politico-religiosa di questo pezzo di città.

Un luogo in cui ci si immagina presenze di sentinelle vigili, a tutela della “ricca e popolosa” Caere: un fuoco sacro perennemente acceso.

Secondo il mito capo Sunion sarebbe il luogo dal quale Egeo, re di Atene, si sarebbe gettato nel mare che da allora prese il suo nome.

Una storia simile, ma dagli esiti completamente diversi, si racconta avvenne intorno alla fine del 1926 proprio su questo sperone.

La narrazione popolare racconta di un cervetrano, Guglielmo, nato e vissuto a Poggio Barone, che subì da madre natura il torto di veder falcidiata la sua coltivazione di grano.

Come nell’Oklahoma di Steinbeck, un caldo terribile, accompagnato dalla mancanza di pioggia, ne impedì la crescita lasciando le piantine spremute a terra, ancor  prima di spigare.

Il già attempato boccettaro ci aveva puntato su una raccolta miracolosa, al punto di aver chiesto ed ottenuto un prestito dalla Banca.

Si sa che le disgrazie non vengono mai da sole ma ,perlomeno ,a coppia.

Lo sfortunato, proprio nel momento più difficile da manda’ giù, si vide recapitare l’ingiunzione consegnatagli dal messo: gli toccava di rientrare e subito!

Preso dalla disperazione, quella cupa e nera che avvolge gli occhi e annebbia la capoccia, lo sventurato percorse lo stradello che dal cimitero scendeva verso la valle della Mola.

Giunto alla curva a gomito che apre alla valle, preso da raptus, si arrampicò su per lo scoglio di tufo avvicinandosi al dirupo, nel punto più alto.

Davanti agli occhi il costone di Monteabbadone, il corso del ruscello mezzo nascosto da splendidi ontani, olmi e canne ondeggianti, l’arcata del  ponte di San Paolo  che aveva percorso una infinita’ di volte .Il sole ancora alto, lo costrinse a chiudere le pupille.

Invocando la Madonna ed i Santi tutti, si lasciò andare.Improvvisamente si sentì trattenere per la giacca, restando in bilico sullo strapiombo.

“Fermate! Mica sarai matto”udì una voce perentoria ma suadente.Si voltò: nessuno!

Un merlo, becco arancione, appoggiato sopra l’olivastro cresciuto stortignaccolo  nella crepa del tufo, lo fissava. Sfrullo’ rumoroso sopra uno splendido alloro a beccheggiare bacche nere.

Guglielmo, ancora stralunato si sedette sul tufo ,lasciando che le gambe penzolassero nel vuoto.

Pochi giorni dopo, accompagnato da un nugolo di figli e nipoti, scalpellò il tufo ,ricavò un altarino all’interno della grotta con l’immagine del santo che per ultimo aveva invocato:Sant’Antonio appunto.

Per anni nella grotta ,ogni mercoledì, un moccolotto acceso sfidava la tramontana.

La moglie, rimasta vedova, sotto il sole che tecoceva, ‘nascirella che ti screpolava le labbra, gli acquazzoni che te fracicavano pure le ginocchia, il fango che appesantiva le già gravose scarpe, non faceva trascorrere un mercoledì che non andasse ad onorare chi aveva fatto rinsavì il marito.

Questo il racconto:vero ,verosimile, possibile!?

A noi piace pensarlo veritiero.

Nota bene Le foto sono di F. Alfani ed A. Alfani