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Vannini, le motivazioni della sentenza: “Ciascuno degli imputati ha dovuto mentire per adeguarsi alle dichiarazioni di Antonio Ciontoli”

Vannini, le motivazioni della sentenza: “Ciascuno degli imputati ha dovuto mentire per adeguarsi alle dichiarazioni di Antonio Ciontoli”

Tutti sapevano che cosa fosse realmente successo quella notte. La Corte d’Appello bis parte da qui nell’illustrare le motivazioni che hanno portato alla condanna a 14 anni per omicidio volontario con dolo eventuale per Antonio Ciontoli e a 9 anni e 4 mesi per concorso anomalo in omicidio volontario per i figli Federico e Martina Ciontoli e la moglie Maria Pezzillo per l’omicidio di Marco Vannini.

Nelle 85 pagine delle motivazioni, i giudici della Corte d’Appello bis puntano i riflettori in particolar modo su tutte le contraddizioni emerse in questi cinque anni nei racconti e nelle deposizioni, prima al pm e successivamente durante il primo grado, da parte degli imputati.

«Dall’esame complessivo – si legge – si evince che ciascuno degli imputati ha dovuto mentire su taluni particolari fornendo versioni che si distanziano dalla verità che rimane sconosciuta e ciò al fine di adeguarsi il più possibile alle dichiarazioni rese da Antonio Ciontoli».

Vannini, le motivazioni della sentenza:
Vannini, le motivazioni della sentenza: “Ciascuno degli imputati ha dovuto mentire per adeguarsi alle dichiarazioni di Antonio Ciontoli”

LA VERSIONE DEI FATTI

Per i giudici della Corte, dalle intercettazioni effettuate all’interno della caserama dei Carabinieri di Civitavecchia, «Antonio, Federico e Martina Ciontoli cercano di addivenire a una versione concordata circa le pistole, su dove si trovassero, su chi le avesse prese e tolte dal bagno. Proprio in tale occasione Federico mostra una certa padronanza con le armi giacché precisa testualmente “sono sceso giù e ho levato il caricatore per vedè se erano cariche, ho messo la sicura … il blocco, solo che poi le ho rimesse dentro, poi gli ho detto (ai carabinieri, ndr) che non mi ricordo se l’ho lasciate giù o le ho riportate su, quindi tu digli, … ah e poi gli ho detto che ho trovato il bossolo in bagno, il bossolo in bagno, però non l’ho toccato, quindi tu gli devi dì che hai trovato le pistole da qualche parte io non gli ho detto dove stavano, che le hai messe nel … nella … e ha preso il bossolo .. e l’hai messo (…).

È evidente che sussiste una forte preoccupazione nel fornire versioni concordanti e che se tutti avessero visto o avessero saputo veramente cosa era successo non vi sarebbe stato alcun motivo di concertare».

LE PISTOLE

Riflettori puntati anche sulle pistole. Secondo le versioni fornite dal capofamiglia queste si trovavano in bagno, dove sarebbe entrato mentre Marco si stava lavando, per riporle in un posto sicuro. I giudici, oltre a interrogarsi sul reale posizionamento delle pistole la notte dell’omicidio del giovane Vannini, puntano i riflettori anche sull’assenza di impronte dalla beretta calibro 9 da cui è esploso il colpo d’arma da fuoco.

Vannini, le motivazioni della sentenza:
Vannini, le motivazioni della sentenza, Le pistole

«Qualcuno – si continua a leggere nelle motivazioni – ha pulito non soltanto l’arma utilizzata ma anche il bossolo che, alla luce delle riportate intercettazioni, non è certo che sia stato rinvenuto in bagno, poiché su entrambi non è stato possibile rilevare alcuna impronta rilevabile mentre dovrebbe costituire una certezza che sulla pistola si sarebbero dovute rinvenire le impronte sia di Antonio che di Federico e di quest’ultimo sul bossolo ed è inverosimile che in momento di così elevata concitazione qualcuno si sia preoccupato di pulire l’arma e il bossolo salvo l’evidente intento di sviare le indagini».

Riflettori puntati anche sulla “giustificazione” data dai legali della famiglia Ciontoli, gli avvocati Andrea Miroli e Pietro Messina: «L’obiezione della difesa che la natura zigrinata del calcio della pistola impedisce di fatto di lasciare delle impronte rilevabili contrasta con i progressi fatti dalla scienza forense che ha portato gli investigatori a essere in grado di rilevare le impronte perfino dal grilletto dell’arma usata ovvero dal castello della stessa, soprattutto se come si afferma è stato messo un colpo in canna».

MARTINA CIONTOLI

In più occasioni, in questi cinque anni, si è anche cercato di capire se Martina, fidanzata di Marco, fosse presente o meno in bagno. Dubbi sopraggiunti sempre dalle intercettazioni ambientali in caserma, dove Martina racconta a Federico e Viola Giorgini (fidanzata di Federico) cosa sia accaduto in bagno. E per giustificare tale racconto sia i legali dei Ciontoli hanno sempre affermato che la ragazza in quell’occasione non ha fatto altro che riferire quanto gli era stato raccontato dal padre parlando come se fosse presente in bagno in quanto in stato di shock.

Vannini, le motivazioni della sentenza: "Ciascuno degli imputati ha dovuto mentire per adeguarsi alle dichiarazioni di Antonio Ciontoli"
Vannini, le motivazioni della sentenza, Martina Ciontoli

«Poiché a parte il rapporto psichiatra paziente in cui si può verificare il c.d “transfert” – spiegano i giudici dell’non vi è normalmente una spiegazione logica per la quale un soggetto, affermare che Martina avrebbe fatto quelle affermazioni in prima persona perché emotivamente provata e limitandosi a ripetere quanto raccontatogli dal padre non ha alcun fondamento logico.

Diverso, peraltro, sarebbe stato se nel raccontare l’accaduto Martina si fosse limitata a dire “papa gli ha puntato la pistola e gli ha detto che poteva costituire oggetto di un racconto de relato, ma invece la descrizione è preceduta da una affermazione che esclude qualsiasi altra possibilità e cioè “io ho visto” che non può prestarsi a interpretazioni diverse dal suo reale significato. E che non si tratti di un racconto del padre lo si desume dal fatto che questi, anche a seguito di contestazione, ha continuato a non ricordare di aver mimato la scena in cui Marco tenta di fargli spostare la pistola».

E poi c’è quel difetto nella beretta che non spara senza essere scarrellata: « O il Ciontoli ha comprato un’arma usurata e quindi di seconda mano già difettata, o l’ha comprata nuova (come sembrerebbe) e l’ha usurata lui sparando in doppia azione innumerevoli volte. In ogni caso doveva necessariamente sapere che l’arma non sarebbe stata in grado di sparare se non dopo lo scarrellamento».

TUTTI SAPEVANO

Smontata anche la tesi secondo la quale l’unico responsabile consapevole di quanto accaduto sia stato Antonio Ciontoli, con il resto della sua famiglia che, invece, non avrebbe fatto altro che credere alla versione da lui fornita, e cioè quella del “colpo d’aria”. Una versione plausibile, per i giudici d’Appello bis solo fino a quando Federico entrando in bagno non rinviene il bossolo e torna nella camera da letto dove nel frattempo era stato portato Marco per avvisare gli altri di quanto trovato «e invitando il padre alla presenza di tutti a cercare il foro d’uscita del proiettile, cosa che viene fatta». Da quel momento «nessuno più può continuare ad affermare di aver prestato fede alla versione di Antonio Ciontoli del “colpo d’aria”.

E tutto ciò avviene dopo che Federico effettua la prima telefonata al 118 dove non soltanto tace su quanto effettivamente accaduto ma addirittura si inventa una paura conseguente a uno scherzo a cui però lui non ha partecipato, in tal modo non soltanto sviando gli eventuali soccorritori dal tipo di intervento necessario e proporzionato alla gravità della lesione ma “tirandosene fuori”, come farà sua sorella che alla domanda dell’infermiera Bianchi che la incrocia appena giunta sul posto su che cosa fosse successo risponde di non sapere nulla non essendosi trovata sul posto».

MARIA PEZZILLO

Anche la moglie di Antonio Ciontoli, Maria Pezzillo, per i giudici è responsabile di quanto avvenuto dopo lo sparo: «Non si preoccupa di far nulla per effettivamente aiutare Marco Vannini, pur avendo sentito l’esplosione del colpo, avere visto Marco sanguinare e averlo sentito urlare dal dolore, ponendosi quale unica preoccupazione quella di riprenderlo in maniera decisa per farlo tacere e di tenergli le gambe alzate.

Interrompe la prima telefonata al 118 nel momento in cui viene invitata a ciò dal marito. E’ presente nel momento in cui l’infermiera Bianchi chiede ad Antonio Ciontoli che cosa sia successo ricevendone una risposta dal contenuto falso e continua ad essere presente nei successivi venti minuti in cui la Bianchi continua a cercare di capire perché il Vannini stia così male. Mente ai genitori di Marco Vannini allorché li chiama una prima volta per dire loro che Marco si è fatto un po’ male cadendo per le scale e che quindi rimarrà da loro e una seconda volta quando li richiama per avvertirli di recarsi al Pit senza specificare che cosa sia successo».

ANTONIO CIONTOLI

Vannini, le motivazioni della sentenza, Antonio Ciontoli

E poi c’è lui: il capofamiglia, «il primo veramente consapevole di avere esploso un colpo di arma da fuoco nei confronti del Vannini cagionandogli una ferita». Proprio lui avrebbe dovuto sin da subito «chiamare i soccorsi» e invece «lascia il Vannini nella vasca da bagno e lo lava per far sparire il sangue, lo muove dalla posizione assunta e lo trasporta nella camera da letto dove viene rivestito di tutto punto ma non con i suoi abiti ma con quelli reperiti da Martina Ciontoli, non presta soccorso alcuno a Marco e al momento in cui Federico effettua la prima telefonata al 118 interviene interrompendo la conversazione affermando “non serve niente”».

Non solo, quando chiama il 118 la seconda volta «fornisce false informazioni» e ripete la stessa versione (quella del buchino del pettine) anche una volta arrivati i soccorsi in via Alcide de Gasperi. Sotto i riflettori anche la richiesta al dottor Matera di evitare di non scrivere che si trattasse di un colpo d’arma da fuoco.

LA MORTE DI MARCO

Per i giudici, inoltre, «non è vero che l’eventuale sopravvivenza del Vannini avrebbe costituito un elemento positivo per l’imputato e di contro che la morte avrebbe invece costituito un elemento negativo» perché «la morte di Vannini ci impedisce di sapere la verità». In sostanza, «anche nell’ipotesi in cui la verificazione dell’evento collaterale rappresenti il fallimento del piano non può escludersi che l’agente abbia effettuato una opzione consapevole accettando in ogni caso la verificazione dell’evento».

Diversa la situazione per i suoi familiari che, «sebbene si siano potuti rendere conto della gravità» della situazione, avevano accettato invece «un evento meno grave e diverso da quello ravvisato e accettato» dal capofamiglia.

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