fbpx
 
CittàCronaca

Quando il West era alle porte di Cerveteri

Breve storia dell’epopea della nascita della frazione de I Terzi

di Giovanni Zucconi

Cerveteri ha sempre avuto un’anima contadina. La campagna ha rappresentato spesso la quotidianità di praticamente tutte le famiglie storiche della città. Ma c’è stato, e c’è ancora, un suo territorio dove la campagna è veramente campagna, e non una propaggine nettamente staccata dal paese: I Terzi.

Questa è la storia, che in parte troverete sui libri, e in parte raccontata da mia madre che l’ha vissuta, della nascita di questo borgo agricolo. La storia di uomini e donne che hanno traslocato la loro povertà dal loro paese natio in nulla lontano da tutto. Accompagnati però dalla speranza di un futuro migliore. Una storia non tanto dissimile da quella che abbiamo vista raccontare tante volte nei film western americani.

Perché tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, il selvaggio West da colonizzare non era solo quello che vedevamo nei film di John Wayne. Anche se non c’erano Sioux da combattere, c’era un West molto più vicino a noi, ad est Cerveteri, nelle campagne che De Gasperi aveva appena espropriato ai nobili latifondisti. In particolare ai Torlonia, che avevano il loro ducato a Ceri. Proprietà che aveva assegnate all’Ente Maremma affinché la loro terra venisse ridistribuita alle famiglie più povere disposte a coltivarla.

Una terra fertile, ma segnata da secoli di latifondo improduttivo, dove non c’era praticamente nulla, neanche gli alberi. Terreni che i Torlonia assegnavano ogni anno, per i cosiddetti “usi civici”, a pastori e contadini. Che poi dovevano ripagarli con un terzo della loro raccolto o della loro produzione. Da questo impegno prese origine il nome assegnato a questi luoghi, e che ancora oggi ritroviamo nel toponimo moderno: I Terzi di Ceri. Queste consuetudini, di natura ancora medioevale, terminarono con la riforma agraria del 1951 che puntava a creare una piccola proprietà contadina sui terreni dei latifondisti.

Ma nelle nostre campagne non ci fu una semplice ridistribuzione delle terre, ma una vera e propria colonizzazione. Quelle campagne, come i territori americani del West, erano prive di tutto e bisognava costruirci tutto, se ci si voleva portare le famiglie di poveri braccianti a viverci e a lavorare la terra. Grande regista di questa “colonizzazione” fu il mitico Cardinale Eugenio Tisserant, grande uomo di Chiesa e di cultura. Ma soprattutto molto impegnato nel sociale e molto vicino ai bisogni della povera gente. Fu lui, con la sua autorità morale di Cardinale nell’Italia democristiana di quegli anni, a guidare e a influenzare le decisioni dell’Ente Maremma nella progettazione dei borghi che sarebbero dovuti nascere nel territorio del comune di Cerveteri.

Fu lui a chiedere che il futuro borgo de I Terzi di Ceri, così come quello di Borgo San Martino, dovesse essere immaginato come il centro spirituale della comunità dei contadini, e che dovesse contenere solo la chiesa, l’ambulatorio, le scuole e la dispensa. Le case dei contadini dovevano essere costruite al centro dei terreni che essi avrebbero dovuto coltivare, a rafforzamento dell’idea del possesso e del legame con la terra appena assegnata. Ma dovevano anche essere a una distanza accettabile dal borgo vero e proprio. In questo modo il borgo, raccolto intorno alla sua chiesa posta in una posizione dominante, sarebbe diventato, a tutti gli effetti, un vero centro di incontro e di unione spirituale. Fu quindi proprio il Cardinale Tisserant a scegliere il posto dove edificare la chiesa de I Terzi, sul suo punto più alto, all’incrocio tra due strade importanti, una proveniente da Cerveteri e l’altra che univa la Braccianese all’Aurelia. E per la futura parrocchia Tisserant “pretese” che fosse costruito un campanile, l’unico tra tutte le chiese dei borghi limitrofi, per chiamare a raccolta tutte le famiglie di quel vasto territorio. E lo volle fortissimamente, tanto da non prendere in consegna la chiesa, già terminata, prima che l’Ente Maremma lo finisse di realizzare.

Siamo a questo punto intorno al 1955, e le case coloniche erano già state costruite. Erano dignitose per quei tempi: una grande cucina, tre camere e un bagno al piano superiore, la stalla per le mucche e i magazzini al piano terra. Oltre all’abitazione principale, furono costruiti un pollaio, una porcilaia, un fontanile per abbeverare gli animali e un grande forno per cuocere il pane. Ma questo era tutto: era una casa colonica costruita nel nulla, come le fattorie del West americano.

Quando il West era alle porte di Cerveteri
Quando il West era alle porte di Cerveteri

Mancava l’elettricità: di giorno c’era il sole e di notte la luce proveniva dalle candele e dalle lampade ad olio. Mancava il telefono. Mancava l’acqua corrente, almeno all’inizio. L’acqua l’andavano a prendere le donne, come in Africa, con le brocche poggiate sulla testa, al fontanile più vicino o alla fonte dell’”acqua acetosa” distante diversi km. Mia madre, ma non solo lei, ancora soffre dei postumi di questa attività quotidiana. Gliela ricordano ogni giorno i dolori provenienti dalle sue vertebre schiacciate. E i panni si lavavano nel fosso, contendendo l’acqua, gelata d’inverno, con i girini che allora erano abbondanti.

Nessun mezzo di trasporto: nessun autobus, nessuna macchina privata se non il camioncino del proprietario del bar e della dispensa. Solo una bicicletta e qualche anno dopo, se andava bene, una Lambretta. Cerveteri era separata da I Terzi di Ceri (che poi diventerà “I Terzi – Frazione del Comune di Cerveteri” nella denominazione ufficiale) da soli 15 Km di strade polverose d’estate e fangose d’inverno. Ma per le famiglie appena giunte da mezza Italia era lontana quanto la Luna.

L’isolamento in mezzo a quel nulla era praticamente completo, e pesava su di tutti. Ma in modo particolare sui giovani, che non avevano modo di incontrare i loro coetanei se non la domenica a messa. Una vita difficile, iniziata con un trasferimento dal loro paese d’origine, non su dei carri come per i coloni americani che andavano ad occupare le selvagge terre del West, ma su un vecchio camion. Portavano poche cose con loro: i materassi, i pochi abiti, quello che rimaneva del corredo della madre e quello che si stava mettendo da parte per le figlie più grandi. Il pentolone di rame per cuocere la pasta e poco più. Si partiva poveri dal paese natio e si arriva ancora più poveri in quel nulla dove mancava tutto.

Solo il futuro diventava meno nero a mano a mano che il camion si avvicinava a I Terzi. Li c’era la terra da coltivare, e con essa si poteva dire addio alla cronica mancanza di lavoro in quell’Italia del primissimo dopoguerra. “… La terra è bassa…” diceva sempre mio nonno, ma con quei 10 ettari circa che venivano assegnati ad ogni famiglia, finalmente ci si doveva piegare solo per zappare l’orto, e non era più necessario chinare la schiena davanti a chi sfruttava il lavoro degli altri.

Lo Statuto dei Lavoratori era ancora lontano, e lavorare a giornata come bracciante, quando avevi la fortuna di lavorare, voleva dire spesso rinunciare alla propria dignità di Uomo. Non che il lavoro in questo West alle porte di Cerveteri fosse più leggero di quello a giornata, anzi. Bisognava trasformare quel nulla in un podere produttivo. Bisognava piantare gli alberi da frutta e la vigna, dissodare il terreno per gli orti e per il grano. Non c’erano gli Indiani d’America da combattere, ma le attrezzature agricole moderne sarebbero venute più tardi, e la terra bisognava sottometterla con la sola forza delle braccia. Ma la fatica e il sacrificio non erano mai un problema per questi coloni di casa nostra. E furono affrontati con dignità e forza di volontà, superando disagi che oggi ci sembrerebbero insopportabili.

Quando il West era alle porte di Cerveteri

Ci sarebbe ancora molto da raccontare su questa epopea della nascita della frazione de I Terzi, ma termino ricordando un’usanza che mi colpì molto quando me la raccontò mia madre. E che dà l’idea del senso di comunione e di mutuo soccorso che permeava quella gente povera fuori, ma ricca dentro. Il maiale era una specie di tesoro per quelle famiglie sempre al limite dell’indigenza, e la sua uccisione e la sua trasformazione in salsicce e prosciutti era per tutti l’evento più atteso dell’anno. Nonostante ci fossero in ogni famiglia molte bocche da sfamare, questa gente povera, appena ammazzato il maiale, portava un pezzo di quella carne a tutti i propri vicini. Mi raccontava mia madre, che poi a loro rimaneva poco del maiale, ma non era un problema. Quando i vicini avrebbero ammazzato il loro, gli sarebbe toccato un pezzo. Alla fine, i conti della carne non solo tornavano, ma si era anche sicuri che si poteva contare sulla comunità in caso di bisogno. Anche se moriva il tuo maiale, anche quell’anno avresti mangiato salsicce. Un mondo ormai lontano mille anni. Eppure, ne sono passati solo poco meno di settanta.

Post correlati
Cronaca

Roma: azione antiborseggio sui mezzi pubblici e nelle aree turistiche, fermate 14 persone

CittàCultura

Cerveteri, il 6 aprile la presentazione di "Figlia della Luce" di Giulio Coni

Cronaca

Roma: Un giovane aggredito e minacciato costretto a consegnare lo smartphone, arrestati due uomini

CronacaNotizie

Cerveteri: controlli e ispezioni a tutela dell'ambiente scoperta dai Carabinieri officina abusiva

Iscriviti alla nostra Newsletter e rimani sempre aggiornato.