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Daniela Alibrandi: “Le mie storie non sono solo noir, sono romanzi “tridimensionali”

Intervista alla scrittrice che da anni vive a Cerveteri

di Giovanni Zucconi

Cosa fa di un autore di libri, uno scrittore? Non è solo il pur necessario grande talento. Uno scrittore vive di ispirazione continua. Vive accompagnato dalle storie che gli sgorgano letteralmente dalla tastiera. Vive e si immedesima ogni giorno nei protagonisti, le loro passioni e i loro drammi.

Ne ho intervistati tanti di autori di libri. Anche dei mostri sacri. Ma nessuno, fino ad adesso, che avesse scritto, e pubblicato in più edizioni, 15 romanzi negli ultimi 10 anni. E che avesse vinto anche premi nazionali ed internazionali. Nessuno fino alla lunga e piacevole intervista che ci ha gentilmente concesso Daniela Alibrandi. Una scrittrice che è stata rapita tardi dal demone della scrittura, anche se covava da sempre in lei. Poi, 13 anni fa, ha deciso di cambiare drasticamente la sua vita, e di dedicarsi solo ai personaggi e alle storie che adesso popolano i suoi romanzi. E da quel momento non si è più fermata. Un successo dietro l’altro.

Daniela Alibrandi: “Le mie storie non sono solo noir, sono romanzi “tridimensionali”
Daniela Alibrandi

Dimenticavo. Daniela Alibrandi oggi vive a Cerveteri, dopo aver vissuto e studiato negli Stati Uniti.

Nel 2010 ha scritto il suo primo romanzo. Non conosco la sua età, ma è possibile che lei l’abbia scritto non più da giovanissima. Poi, nei successivi 10 anni ha scritto altri 14 romanzi. C’è stata come un’esplosione creativa. A che cosa è stata dovuta?

“Che sarei diventata una scrittrice già lo sapevo a otto, nove anni. Quando leggevo “Piccole donne”, dove c’era il personaggio di Jo, che era una scrittrice. E quindi mi dicevo: “io da grande farò la scrittrice”. Ma poi il matrimonio, i figli, il lavoro nell’ambito del Consiglio d’Europa non mi hanno mai permesso di scrivere. Mi svegliavo la notte con un’ispirazione, ma poi durante il giorno non avevo mai il tempo per scrivere qualcosa.”

E poi che cosa è successo?

“Nel 2008 ho avuto un infortunio, e sono stata ferma 45 giorni. Ma proprio ferma. In quei giorni ho sentita fortissima l’ispirazione, e ho scritto “Nessun segno sulla neve”. Pensi che i primi due capitoli li ho scritti con la mano sinistra, perché la destra non riuscivo a muoverla. I critici letterari mi hanno poi detto che si capiva che era stato scritto con la mano del cuore, la mano sinistra”.

Quindi ha avuto una buona accoglienza dalla critica

“Molto buona. Ha vinto subito il premio Circe, che è un importante premio letterario nazionale. Ed è stata pubblicata anche una edizione in inglese.”

Ha una particolarità questo romanzo?

“In “Nessun segno sulla neve” parlo come se fossi un uomo. Sono entrata nel mondo maschile. E questa cosa mi è piaciuta tantissimo. Non so perché mi è venuta questa idea. Forse non volevo essere riconosciuta, non lo so. Forse perché è ambientata nel ’68 romano, anche nel liceo dove avevo studiato. C’erano quindi delle cose che non volevo che trasparissero. Pensi che, quando mi ha chiamato l’editore, ha cercato Daniele Alibrandi. E quando gli ho detto che ero Daniela, mi ha risposto che solo un uomo poteva aver scritto quel romanzo.”

Poi ha preso il via, e ha scritto praticamente un libro l’anno. Come si fa a scrivere un romanzo l’anno? Non è proprio una cosa banale

“No, non lo è. Ma è una cosa che a me viene spontanea. Mi viene un’ispirazione dietro l’altra. Io sento le prime parole del libro che devo scrivere, e a quel punto comincio a raccontare. Poi la storia si crea da sola. I personaggi escono a mano a mano, e l’intreccio si crea davanti ai miei occhi. Quando scrivo, a volte ho l’impressione di averli vicino i miei personaggi. E quando finisco di scrivere un romanzo, è per me un momento tristissimo. Perché ho passato anche dei mesi accanto a loro. Ma appena finisco un libro, ho già in mente le frasi del romanzo successivo.”

Ha detto che per lei è come se vivesse accanto ai personaggi quando li descrive. Per lei è come per gli attori, che spesso continuano a vivere il personaggio anche fuori dal palcoscenico? Daniela Alibrandi durante la gestazione dei personaggi si muove, pensa, e vive come loro, o è semplicemente una mamma che li porta in grembo?

“I personaggi devono essere coerenti, come lo deve essere la storia. Se i personaggi non sono coerenti con sé stessi fino alla fine, il lettore non li segue più. Due sono le regole che seguo sempre quando scrivo. Per prima cosa devi catturare il lettore fin dalle prime pagine, e poi devi entrare nel personaggio. Io dico che li vedo attorno a me ma, in effetti, io sono loro. Nel romanzo “Una morte sola non basta”, dove si parla di violenza sui minori, io creo il mostro. Faccio vedere come una persona diventa un violentatore. Io non le so dire se è una magia, ma io entro nei personaggi.”

Un pezzo di questi personaggi le rimane attaccata addosso, anche quando ha finito di scrivere il romanzo?

“No, quello no. Anche se io ce li ho tutti dentro. Ma nello stesso tempo me ne so distaccare. Io sono dentro e fuori un personaggio. Questo perché alle mie pagine do sempre anche un taglio scenografico. Per me le ambientazioni sono importantissime. Devo fare capire bene al lettore dove si muove il personaggio.  Quindi tu sei contemporaneamente dentro e fuori il personaggio. Ma poi te ne devi distaccare. Ma, nello stesso tempo, ti deve appartenere per sempre.”

Scrivere per lei non è anche un atto di superbia? Lei crea mondi che non esistono. Personaggi che non esistono. Li fa nascere, crescere e morire a suo piacimento. Non si sente un Dio onnipotente quando scrive?

“Nel mio caso è una sensazione di onnipotenza umile. Perché io so che creo un mondo, che nei fatti è un universo microscopico. Ma è vero che tu crei. Crei una storia che poi farà sognare. Tu sai che tutto quello che succederà sarai tu a volerlo. Anche a volerlo fare morire. Però lo fai sapendo quanto sei piccolo, e che vuoi donare emozioni. Dare delle sensazioni. Quello che scrivi lo doni al mondo. È più un atto d’amore che di onnipotenza.“

Rimanendo sul tema “divino”, la scrittura è uno dei modi per diventare immortali. Lei scrive romanzi anche per diventare immortale?

“Non ci avevo mai pensato a questo. Ma indubbiamente, quando scrivi, lasci un segno. Quando da ragazza leggevo un libro, avevo sempre voglia di conoscere chi l’aveva scritto. Per questo, certe volte, adesso penso che chi legge i miei libri vorrebbe conoscermi. Vorrebbe sapere chi sono io, cosa faccio e quello che penso. E questo, lo riconosco, è una bella sensazione. Però non ho mai pensato all’immortalità. Anche perché, purtroppo, in questo mondo, lo sa anche lei, le cose vanno talmente veloci che tra poco queste cose non ci saranno più.”

Quando intervistai Gabriele Lavia, mi disse che attore si nasce. Tu puoi fare le scuole che vuoi, ma queste, al massimo, ti possono insegnare qualche trucco. Secondo lei vale anche per uno scrittore?

“Sì, secondo me sì. Una mia amica, che anche lei scrive, un giorno mi disse: “a me piace scrivere, ma tu sei una scrittrice”. Questa cosa mi inorgoglisce, perché in effetti è così. Io non credo nelle scuole di scrittura creativa. Tu puoi imparare delle tecniche, ma se non hai dentro di te quell’impulso creativo, non sei uno scrittore.”

Si può vivere di scrittura in Italia?

“No. Decisamente no. Non affrontiamo questo discorso, e stendiamo un velo pietoso.”

Ammetto che l’unico suo libro che ho comperato è stato “Un’ombra sul fiume Merrimack“, che è ambientato negli Stati Uniti. Ha scritto romanzi ambientati nel nostro comprensorio?

“Certamente. In “Nessun segno sulla neve”, una parte della trama si svolge a Roma, e una parte si svolge sul lungomare vicino al Castello di Santa Severa. “Il bimbo di Rachele”, è tutto ambientato a Santa Marinella. Nei “I misteri del vaso etrusco” ci si può riconoscere Cerveteri. Il mio ultimo libro, “Delitti sommersi”, edito da Morellini Editore, è tutto ambientato nei laghi sotterranei di Roma.”

Come è stato accolto il suo ultimo romanzo?

“Appena uscito è stato subito inserito nel Festival Noir “Milano in Bionda”, e “Torino in Bionda”. Ero in compagnia con i più grandi giallisti italiani. E sono salita anche sul palco. Sono stati dei giorni veramente molto significativi per me. Anche la RAI si è interessata dei miei libri.”

Come mai ha ambientato il romanzo “Un’ombra sul fiume Merrimack“ negli Stati Uniti?

“Io ho vissuto e studiato negli Stati Uniti. Su questo ho un episodio molto carino da raccontare. Quando il romanzo è stato tradotto in inglese, i miei amici americani di dove avevo studiato, mi hanno rintracciato. Sono stati molto carini. Hanno organizzato addirittura un convegno nella nuova sede della mia vecchia scuola. Sono venuti tutti i miei vecchi compagni di scuola provenienti da ogni parte dell’America. E siamo andati anche sul fiume Merrimack. Il romanzo poi è stato anche vincitore del premio internazionale Novel Writing 2012.“

Nei suoi libri, oltre alle storie, un lettore può trovare anche dei messaggi?

“I messaggi ci sono in tutti i libri. In tutti i libri c’è sempre qualcosa che resta al lettore, e che lo fa riflettere. Quando scrivo c’è sicuramente una voglia di trasmettere, oltre alla storia, anche un messaggio. L’8 marzo 2022, mi hanno assegnato il premio internazionale alla carriera, “Women’s Art Week”, per i temi trattati nei miei libri. In “Nessun segno sulla neve”, ho trattato il tema della violenza sulle donne. In “Una morte sola non basta”, ho tratto il tema della violenza sui minori. Nel “Bimbo di Rachele”, la condizione della donna.”

Nei suoi libri ha parlato spesso di donne

“È vero, ma non ho solo parlato di donne. Io non sono una femminista, e non credo, per esempio, alle quote rosa. Una donna è una donna, e va valutata per quello che è.”

Torniamo all’inizio. Come mai ha deciso di scrivere dei romanzi noir?

“È riduttivo classificare le mie storie solo come romanzi noir. Infatti, la critica definisce i miei romanzi come “tridimensionali”. Un giallo è un romanzo dove c’è un omicidio e bisogna trovare il colpevole. C’è un’indagine. Un noir invece porta il lettore a ragionare come l’assassino. A preparare il delitto insieme a lui. Ma anche a vivere la disperazione e il terrore della vittima. Il thriller cerca invece la suspence, il colpo di scena finale. Nei miei libri si trovano tutte queste tre caratteristiche. È un intreccio di generi, pur nello stesso filone.”

Quale è il suo rapporto con Cerveteri e Ladispoli?

“Questo è un territorio che mi ha accolto, e mi ha accolto bene. Ma mi ha anche ispirato. Io vivo, a Cerveteri, in un punto da cui vedo il mare, e vedo il tramonto sul mare. Nei tramonti io vedo che ogni giorno muore a modo suo. Come per gli esseri umani. Si trascina con sé tutto quello che c’è stato, in quel giorno, di bello e di brutto. Poi mi piace molto la sua lentezza. È un posto che ho scelto, e che sceglierei di nuovo.”

Lei scrive più di un libro l’anno. Non ha paura di perdere l’ispirazione?

“Questa è la paura di ogni scrittore. Le racconto un episodio personale. Con mio marito abbiamo avuto una lunga vita felice insieme. Era una parte di me. Negli ultimi giorni della sua malattia, io gli stavo naturalmente sempre molto vicino. Ma lui mi diceva sempre “Che stai a fare qui. Vai a scrivere… Soffrirai come un cane, ma devi continuare a scrivere.”. Lui che mi amava, sapeva che io, con quel dispiacere, potevo avere un blocco. E in effetti, per qualche mese, per il grande dolore, io non avevo neanche voglia di sentire questa ispirazione.”

È molto tenero questo episodio. Grazie per averlo condiviso.        
Un’ultima domanda: ci può anticipare il suo prossimo romanzo?

“Come tutti gli scrittori non voglio anticipare troppo. Ma posso dire che a giugno uscirà una nuova bomba “tridimensionale”. Sarà una storia molto travolgente, ambientata negli anni ’80 in un convento posto sulle colline toscane.”