La riscoperta di un paesaggio perduto attraverso le parole dell’ex Sindaco e memoria storica locale
Ladispoli, Crescenzo Paliotta ricorda Renzo Rossellini e il “Canto di Palude” ritrovato –
di Marco Di Marzio

A guardarla oggi, la zona che collega Ladispoli a Campo di Mare sembra aver smarrito ogni residuo della poesia naturale che un tempo la caratterizzava. Le costruzioni arrivano quasi a lambire Torre Flavia, il traffico ha sostituito i suoni della fauna, la pianura è diventata un quartiere.
Eppure – come Crescenzo Paliotta, medico, memoria storica ed ex sindaco di Ladispoli, raccontava nel 2003 sul Gazzettino di Ladispoli – questi luoghi furono un tempo un incanto capace di ispirare uno dei musicisti più sensibili del Novecento italiano: Renzo Rossellini, fratello del regista Roberto.
Il paesaggio perduto che ispirò Rossellini
Paliotta ricostruisce con precisione quel mondo degli anni Venti: un piccolo centro tra il Sanguinara, il Vaccina e via Odescalchi, poche case “sobrie e serene”, un alberghetto odoroso di salmastro e uno stabilimento balneare tutto di legno. Lì Renzo trascorse l’infanzia, osservando un paesaggio ancora intatto, disteso fino a Santa Severa e alla Tolfa.
Dalle finestre di casa sua, in via Duca degli Abruzzi, il giovane Rossellini guardava verso Torre Flavia, immersa allora in una vasta palude ricca di vita. Ed è Paliotta a sottolineare come quei “giochi di colori strani ed irrequieti”, quel “concerto incredibile” di animali e quel silenzio primordiale abbiano inciso profondamente sulla sua immaginazione.
Roberto, più avventuroso, esplorava il mare e la pesca verso Palo; Renzo, invece, trovava nella pianura e nella palude la sua dimensione di stupore e ascolto.


La nascita del “Canto di Palude”
È ancora attraverso il racconto di Paliotta che ritroviamo il momento in cui queste suggestioni diventano musica. Nel 1937, ormai adulto, Rossellini scrive “Canto di palude”, una breve composizione sinfonica che debutterà all’Augusteo nel 1938 sotto la direzione di Zandonai.
L’opera avrà una vita intensa: la riprenderanno Bernardino Molinari, che la esegue anche negli Stati Uniti, e l’amico Massimo Freccia, che la presenta al Lewisohn Stadium di New York nel giugno 1939.
Poi la guerra interrompe tutto. Rossellini riascolta la sua opera solo nel 1944, per caso, alla radio, in una Roma liberata ma ancora ferita. La versione è quella registrata a Philadelphia sotto la direzione di Eugene Ormandy.
Paliotta ricorda la malinconia di Renzo: quella musica, ascoltata in un momento di dolore, gli appare come un ricordo lontano, quasi irrecuperabile.


Dopo la guerra: la memoria si spegne
Il dopoguerra porta la ricostruzione e la voglia di dimenticare. Anche la musica di Rossellini scompare dal ricordo della città.
Paliotta sottolinea come Ladispoli non abbia mai ascoltato il Canto di palude, né abbia conosciuto davvero le pagine delle sue autobiografie.
Nel frattempo, il paesaggio cambia: Campo di Mare viene urbanizzato, la palude ridotta a una piccola area oggi protetta, Torre Flavia si spacca sotto i colpi del tempo e del mare. L’ambiente che aveva ispirato Rossellini non esiste quasi più.
Il ritorno del “Canto”: la storia raccontata da Paliotta

È a questo punto che la narrazione di Paliotta assume il tono della sorpresa. Una storia che sembrava conclusa si riapre nel modo più inatteso.
Proprio nel 2003 – racconta nel Gazzettino – Massimo Freccia, allora novantasettenne, si trasferisce a Palo, nel borgo Odescalchi. Dopo una vita trascorsa a dirigere le più grandi orchestre del mondo, torna quasi senza saperlo vicino ai luoghi che avevano dato origine al Canto di palude.
E non arriva a mani vuote: tra i suoi ricordi musicali custodisce ancora quella partitura dimenticata.
Nello stesso periodo, grazie a una ricerca condotta dal Comune, viene rintracciata la partitura originale presso l’Editrice Ricordi e consegnata all’assessorato alla Cultura. Cinquantasei strumenti, sedici violini, sette viole: una sinfonia che dopo più di sessant’anni rivede la luce proprio nella città che l’aveva ispirata.
Un’eredità culturale che oggi parla ancora
Oggi, osservando la trasformazione del territorio, il racconto di Crescenzo Paliotta assume un valore ancora più forte.
Il Canto di palude non è solo una pagina musicale: è una testimonianza di ciò che Ladispoli era, di ciò che ha perso, e di ciò che può ancora ricordare.
Riascoltarlo – quando sarà possibile eseguirlo nuovamente – significherà ritrovare un frammento della nostra storia naturale e culturale, recuperato grazie alla caparbietà della memoria e al lavoro di chi, come Paliotta, ha scelto di non lasciarlo svanire nel silenzio.









