di Barbara Scarafoni
Tra le gang di ragazzini senza coscienza e la “pericolosità” di una vita in armonia con la natura, l’Italia sta forse inseguendo la strada sbagliata per salvare la sua prossima generazione.
Assistiamo, ormai con cadenza costante, a una vera e propria escalation di violenza giovanile. Non è più un fenomeno relegato alle grandi metropoli o ai contesti di degrado socio-economico. Le aggressioni, le bravate in branco, e gli atti di bullismo feroce si manifestano con un’indifferenza agghiacciante in ogni angolo del Paese, coinvolgendo tutte le classi sociali.
Questi giovanissimi agiscono come vere e proprie gang, spinti da una dinamica di gruppo che sembra annullare il senso di responsabilità individuale. Sembra quasi che abbiano perso la coscienza delle loro azioni, vivendo la violenza alla stregua del mondo virtuale e social che frequentano, dove l’impatto e le conseguenze sono meramente effimeri e reversibili.
Non possiamo limitarci al dovere di cronaca. La frequenza di questi episodi è una costante che chiama in causa l’intero sistema Italia. C’è qualcosa di profondamente distorto in questo processo evolutivo, un vuoto etico e valoriale che non può essere imputato solo alla famiglia o alla scuola.
La responsabilità, in parte, ricade anche sulla classe politica. Spesso sentiamo parlare di sicurezza e di violenza, ma il discorso si limita, per convenienza o distrazione, a riferimenti superficiali, puntando il dito esclusivamente su fenomeni esterni come l’immigrazione. Questo è un errore miope e pericoloso.
La verità è che il problema lo abbiamo in casa. La crisi educativa e la mancanza di riferimenti morali coinvolgono quella che sarà la nostra prossima generazione di cittadini. Mentre il mondo giovanile urbano e periferico sembra andare “a rotoli” in una spirale di violenza auto-generata, la risposta del sistema Italia a dinamiche diametralmente opposte è stata, a dir poco, sconcertante.
Mi riferisco al caso della famiglia anglo-australiana che ha scelto di vivere in un bosco. Due genitori che, per proteggere i propri figli dalle pressioni, dal caos e dalla violenza della società moderna, avevano optato per una vita alternativa e minimalista. Un’esistenza semplice, a contatto con la natura e gli animali, basata sulla libertà e sull’educazione attraverso l’esperienza diretta. Ebbene, il nostro sistema ha risposto a questa scelta non convenzionale con la rimozione forzata dei tre bambini per trasferirli in una comunità educativa.
A fronte di queste due storie così estreme e antitetiche, siamo costretti a porci una domanda scomoda e fondamentale: è davvero questa la strada giusta che il nostro Paese sta perseguendo?
Da un lato, tolleriamo o non riusciamo a contenere l’aggressività cieca che dilaga nelle piazze. Dall’altro, demonizziamo e smantelliamo con la forza una famiglia che, pur con scelte radicali, tentava di offrire ai figli un baluardo contro quella stessa violenza e quel caos.

Il sistema sociale e istituzionale sembra temere l’eccesso di violenza (il branco) tanto quanto l’eccesso di libertà e di semplicità (il bosco). Abbiamo perso la capacità di distinguere tra ciò che è veramente pericoloso e ciò che è solo diverso? E se la violenza urbana fosse l’inevitabile prodotto di un sistema che non tollera nulla al di fuori della sua omologazione, persino la quiete del bosco?
Forse la risposta non sta nel puntare il dito, ma nell’ammettere che l’equazione è sbagliata: se la paura della natura e della libertà porta all’isolamento di chi cerca pace, mentre l’escalation della violenza rimane un problema irrisolto di massa, allora dobbiamo domandarci che tipo di società stiamo costruendo, e per chi.









